Romanzi

Apri gli occhi. Luce soffusa nella stanza. Il sole invernale scalda un triangolo giallo di letto, la mente è annebbiata e incolpevole. Che ore sono? 9.30, bagliore verde smeraldo dell'orologio. La stanza è fredda. Gusto amaro in bocca, un misto di fumo e alcool, assenzio e fiele. Allunghi un piede nella parte gelida del materasso ma lo ritiri subito. È meglio quel limbo caldo di lenzuolo sgualcito, così come è meglio quel nirvana malinconico di ricordi che spesso bussa alle tue tempie e ti trapana inesorabile il cervello. Questa è la volta buona e lei ancora risorge nei tuoi pensieri, uno zombie profumato e biondo che ritorna quando credi di averlo seppellito per sempre, smuove la terra e riappare come in un vecchio film horror. Dove sarà ora? Che starà facendo? Un'altra realtà, un altro mondo sconosciuto. Un'altra vita. Che strade avrà percorso, quali sogni costruirà, su quali labbra appoggerà le sue? Te lo chiedi adesso che siete così lontani, separati l'uno dall'altra per sempre, due destini diversi e apparentemente incompatibili che si sono mescolati per un attimo solo. Coca e rum, una volta mischiati per bene e girati con cura nel bicchiere come puoi pretendere che ritornino divisi, magari in due bottiglie differenti? Cerchi di assaporare il gusto inebriante della libertà ora che non c'è più. Ora che sei perduto per sempre dentro altre dimensioni incompatibili. Ora che hai deciso di chiudere il cancello e di sciogliere l'inscioglibile. Ora che la tua vita è cambiata e percorri altre strade sterrate e insicure. La radio trasmette musica jazz soffusa. Riconosci Bill Evans, un pianoforte ruffiano e delicato che strofina di candido blues un misolidio sublime quasi volesse spogliarlo con le unghie. Ti manca, sì. Ti manca saperti suo come un gatto, come un paio di scarpe bianche o un oggetto lasciato da qualche parte ma comunque suo. Ti manca saperla qui nel presente, anche se vorresti cacciarla dall'angolo di cervello in cui abita, sfrattarla per sempre a calci nel culo e fare come chi riesce veramente a girare pagina una volta per tutte. Sei libero e sei quello che ti pare perché quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare. Per questo non ti alzi dal letto e rimani nell'inciso malinconico di un blues chiamato ricordo come chi cavalca sprezzante le onde mentre in realtà vorrebbe andare a fondo. Allora lo fai davvero, questa volta non scherzi. Parti, te ne vai. La barca si stacca lenta ma inesorabile dal pontile del ricordo e lei c'è, voltata di spalle, altèra, una sagoma grigia stagliata in controluce. La vedi girare un poco la testa, lo stesso gesto di quando stava sotto di te impazzita di voglia e si dimenava, ti guardava e ti teneva d'occhio, controllava la misura della vostra estasi. È soltanto un attimo, ancora puoi vedere i suoi occhi, il suo profilo disegnato sul fondo azzurro del cielo che in silenzio si allontana sempre più. Diventerà solo il particolare piccante di una serata banale tra amici senza fantasia, ghiaccio, nebbia e distanza che aumentano e ti strapperanno il cuore a brandelli sempre più piccoli. Altre volte invece il suo ricordo sarà così forte, il bisogno di lei così impellente che gli occhi vorranno sciogliersi in lacrime bollenti e resterai ad ammazzarti di ricordi in un folle suicidio di memoria. Arrivò in una notte di pioggia fredda e se ne andò in un giorno di sole, lasciando dietro a sé un cumulo di macerie. Entrò e sconvolse un'esistenza come tante, la coprì di nuovo come solo i miracoli sanno fare. Una notte di pioggia e un giorno di sole. Nel mezzo la storia di voi, un meccanismo quasi perfetto di movimenti sincronizzati che ha smesso di funzionare. La storia di voi, così simile a tante ma così differente. Smetti di respirare e vorresti non respirare più. Si scuce il velo, si strappa la corda. La corrente ti porta lontano. Inizia il viaggio.

Il cembro raccontò una verità meravigliosa. Spirito lo sapeva, gli alberi non conoscono la finzione, la diplomazia o la convenienza degli uomini. Cominciò a lavorare con la sgorbia, la mazza batteva sul grosso manico di sughero e i trucioli arricciati piovevano sul pavimento. Era la parte che Spirito preferiva, sgrossare il legno per dargli un profilo vago di fantasma velato, incidere solchi asimmetrici per divenire aratro ubriaco di vita. L'aroma del cembro si sparse in tutta la stanza, riempiendone ogni anfratto. Come sempre si compì il miracolo e la donna della fotografia cominciò ad apparire. Già si intuiva il tratto accentuato della mandibola e la linea curva delle spalle. Al centro, in quell'abbozzo di volto, cominciò a delinearsi il naso e la fronte. Spirito si fermò e trattenne il respiro. Ne era certo, il viso della donna, il suo collo, gli stessi pensieri, tutto era racchiuso in quel legno di cembro. L'albero aveva atteso quel momento da molti anni, da quando era ancora un piccolo seme custodito nel muschio o un fragile arbusto sferzato dal vento. Sfiorò con la mano un embrione di legno e lo sentì caldo e pulsante sotto le dita. Un fremito lo attraversò, salì dalla sgorbia e percorse le braccia, arrivando dritto al cervello. Spirito chiuse gli occhi e ascoltò la voce dell'albero. Il cembro narrò la storia di una donna che percorse a testa alta il proprio tempo. Una donna che impiegò gran parte della vita a sgretolare certezze e luoghi comuni, in un mondo di maschi che la voleva relegata nel ruolo consueto di moglie e di madre. Un mondo dove per gli uomini era tutto più semplice e persino Dio veniva raffigurato con una lunga barba, nei dipinti in chiesa. Il tempo camminava a ritroso. Spirito osservò l'argento dei capelli diventare più scuro, caricarsi di riflessi ambrati e trasformarsi in un colore castano, tendente al rosso. Anche il volto della donna cambiò, le rughe si colmarono di vita e la pelle ritornò liscia e levigata. Soltanto gli occhi restarono uguali, accesi e carichi di una fierezza primitiva. Occhi che guardarono ben oltre le stelle. Occhi che non persero mai il colore della giovinezza. Spirito vide il bambino biondo, quello che nella fotografia spiccava un salto incompleto per afferrare le nuvole. Stringeva tra le mani un filo di cotone che si perdeva nel cielo e la sua voce aveva il suono di una cetra sfiorata dal vento. «Mamma, come volano gli aquiloni?» La donna lo mise seduto sulle ginocchia. «Gli aquiloni volano sorretti dai sogni di tutti i bambini del mondo.» Gli accarezzò i capelli e lo baciò teneramente sulla fronte, poi riprese a parlare. «Sai perché sognano i bambini? Per costruire un mondo migliore di quello che ricevono in dono dagli adulti. Perché sognando possono immaginare l'impossibile, prendere una stella per la coda e ballare un valzer con la luna. Per questo il sogno può fare paura. Per questo, da grandi, smettiamo di sognare.» Il bambino la fissava intensamente, lei allargò un sorriso luminoso. «Non smettere mai di sognare, figlio mio. Non smettere di far volare il tuo aquilone.» Lo strinse più forte tra le braccia. «Coltiva i tuoi sogni, perché sono fiori bellissimi che crescono nel giardino della fantasia. Innaffiali con le lacrime della gioia, bagnali di luce e speranza, perché c'è un progetto scritto sulla pelle di ognuno e soltanto il sogno può aiutarti a capire qual è.» La donna non temeva la battaglia, la sacra guerra nel nome di sé stessi. Non aveva paura di abbattere le mura massicce dei benpensanti. Era una donna che conosceva il coraggio, una donna che profumava di legno e libertà. L'ultima battaglia fu combattuta sul telo verde di un tavolo operatorio. Spirito vide tre medici. Avevano le mani in un corpo di donna, scempiato da un taglio che andava dal petto al basso ventre, bisturi lucidi, guanti e tubi di gomma. Percepì un odore penetrante di alcol e supplizio, la cornice di un lungo intervento chirurgico che non riuscì a fermare l'ineluttabile. La donna morì, portata via da un male spietato. Un uomo era accanto a lei. Aveva la stessa barba di Dio, un lungo cappotto grigio e un cappello di feltro. Teneva le mani sul viso. Piangeva senza tregua e consolazione.


Bastò un solo respiro e una telefonata breve. E ancora quel treno, di nuovo un viaggio dondolante verso oriente, le orecchie colme della sua voce impastata di malinconia. «Sono io.» E il cuore si fermò. Un attimo interminabile, poi riprese a battere, lento e sonoro. Claudia sussurrò che aveva bisogno di me e che doveva vedermi, disse che la distanza annientava i ricordi e faceva impennare la tristezza. Mi inebriò l'idea che avesse percepito lo stesso desiderio, lo stesso crepitio di fiamme nel profondo dell'anima. Rimasi in ascolto, muto. Le parole danzavano, splendenti come scintille negli occhi. Patrizia era a Roma per un convegno. Tailleur, giacche e cravatte, buffet al tavolo, psicanalisti pronti a indagare baratri di coscienze e fumosi sensi di colpa. Nemmeno l'avvisai, misi un cambio in una borsa e corsi in stazione. Il treno era carico di famiglie, bambini urlanti e accaldati. Viaggiai con il sole sul viso, appoggiato al vetro scrutavo l'orizzonte come un pellegrino timoroso. Ogni minuto che passava sentivo avvicinarsi la meta, l'unico significato della mia esistenza vuota. In quel treno realizzai che Claudia era la conclusione della corsa, il cancello socchiuso che divideva la noia dalla felicità. Il punto alla fine della frase che trasformava il monologo in dialogo. Il dondolare del vagone mi condusse in un sonno agitato. Sognai una gabbia vuota al centro dell'oceano e Claudia nuda e trasparente. Teneva una forbice in mano e si tagliava i capelli, lasciandoli cadere. Dal mare spuntavano fiori e spighe di grano che riflettevano i colori dell'arcobaleno. Lei sorrideva e spalancava la bocca. Io diventavo piccolissimo, entravo tra le sue labbra e mi accovacciavo sulla lingua morbida. Ero un feto cullato da un liquido azzurro, mi scioglievo in lei e il mio corpo diventava sangue e cellule. Claudia inghiottiva la mia essenza per trasformarla nella sua, in una sorta di antropofagia delicata e priva di crudeltà. Arrivai a Venezia. La stazione il solito nido di vespe colorate, ognuna con la propria valigia e un pezzo di esistenza tra le mani. E io facevo lo stesso, portavo con me un cambio di vestiti, lo spazzolino da denti e la mia anima nuda. Un bagaglio leggero e trasparente, pronto per essere consegnato nelle mani di Claudia come un pacco vuoto. Camminai tra le calli, l'odore di salsedine nel naso. Lasciai impronte sui selciati bianchi e trafitti dal sole, mentre migliaia di turisti scattavano foto ai piccioni. La mia era una fuga felice e mi percorse il pensiero che sarebbe stato bello vivere come un evaso. Fuggire senza motivo, dormire vestito e vivere per ciò che ero, non per i ruoli che qualcuno mi aveva appiccicato alla pelle. Vivere senza ragionare, puro e incolpevole come gli angeli. La vidi da lontano, anche lei immersa nella stessa folla. Calle dei Fabbri brulicava come un formicaio, quasi ci scontrammo, sorrise e aprì le braccia. Mi raccolse come un tappo di sughero portato dalla corrente di un fiume, chiuse le mani a coppa e mi sostenne. Per me fu ritrovare ciò che avevo perduto. La metà che era rimasta dentro gli occhi di Claudia si ricongiunse alla parte che mancava. Ci abbracciammo e appoggiò le labbra alle mie. «Ciao Cosimo. Ben arrivato.» Presi per mano la gioia e respirai il respiro del cielo. «Ti trovo bene.» «Grazie.» Discorsi di rito, futilità splendide solo perché uscivano dalle sue labbra. Occhiate rapide, indizi di una familiarità solo nostra, piccoli segreti e confessioni che avevamo condiviso. Avrebbe potuto fare di me ciò che voleva. Rinchiudermi in una prigione e nascondermi al mondo, oppure cavarmi gli occhi e farne un paio di orecchini. Non m'importava. Volevo soltanto essere il suo prolungamento, un gingillo superfluo che lei avrebbe portato in tasca per il resto dei giorni. La guardai, mi guardò. L'odore di salsedine svanì. All'improvviso Venezia e la mia vita ripresero ad avere il profumo di Claudia.


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